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Questo scritto è un rifacimento dell'intervento "Memorie di liberazione dall'uccidere" di Enrico Peyretti nel convegno romano "La Resistenza non armata", del 24-25 novembre 1994, i cui atti sono stati pubblicati, con lo stesso titolo, da Sinnos editore, Roma 1995 |
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Approfondimenti
IL 1945 IN LUNIGIANA
Liberi dall'uccidere
di Enrico Peyretti
Nel capitolo "Quelli dell'ultima ora" di questo volume, vediamo uomini che combattevano dalla parte ingiusta compiere, anche a prezzo della vita, atti di riscatto umano dalla violenza. D'altra parte, ci fu anche chi, combattendo dalla parte giusta, fu travolto dalla propria violenza ingiustificabile (dirò più avanti come simili episodi non permettono di infangare la Resistenza). Ma è spesso possibile rintracciare, accanto a questi comportamenti, atti umani che restituiscono speranza di umanizzazione. E' quello che vorrei leggere in un episodio di guerra vissuto personalmente.
Come altri della mia età, io ho visto uccidere prima che morire di morte naturale. L'unico episodio di sangue a cui mi trovai presente da bambino, durante la guerra, cresce di significato nella mia memoria.
Erano tre nemici, soldati dell'esercito tedesco che aveva occupato anche il nostro paese, aveva compiuto violenze sui civili e omicidi gratuiti, aveva deportato cittadini inermi, fatto stragi di cui già si sapeva (Vinca, Sant'Anna di Stazzema non erano lontane). Quei tre uomini avevano perso il contatto coi loro reparti sconfitti e fuggitivi, erano ormai disarmati e inoffensivi. Catturati, passavano ora sotto le nostre finestre, circondati da uomini armati, col capo chino di chi sa che va a morire. Ero un bambino di nove anni, ma capivo i loro sentimenti. Li vedo ancora, dopo sessant'anni, con la morte sul capo, camminare i loro ultimi passi, verso la piazza del paese e verso la morte. Sono tornato recentemente su quella piazza e tutta la presenza di quel ricordo è venuta per l'ennesima volta, con la forza profonda di un giusto appello, che chiede di essere ritrasmesso.
Avevamo tutti festeggiato il 25 aprile - quello originale, il primo - per le strade, dove bandiere rosse e cavalli nel sole splendente eccitavano la nostra fantasia di bambini. Ero passato per tutte le osterie del paese, dove tanta gente mescolata brindava alla fine della lunga guerra. Ero piccolo, vedevo i grandi dal basso in alto. Ricordo il contatto freddo col calcio tutto metallico di un fucile chiamato "sten". Forse è stata, grazie a Dio, l'unica arma che ho toccato nella mia vita.
Era finita la guerra! La presenza di un ospedale militare tedesco aveva protetto dalle bombe il paese in cui eravamo, Bagnone, in Lunigiana, paese nativo di mia madre Luisa (1904-1990). C'erano state alcune scaramucce nei dintorni, non grossi fatti di guerra. Gli anglo-americani non erano ancora arrivati. In paese non c'era alcuna autorità costituita. Sulla piazza, il parroco don Aurelio Filippi, riuscì a far sospendere l'esecuzione dei tre soldati tedeschi e fece appello al popolo presente, unica autorità, chiedendo che alzasse la mano chi approvava la loro fucilazione.
Il rapporto della popolazione con gli occupanti tedeschi non era certo stato tranquillo. L'ospedale aveva protetto il paese, sì, e anche curato la popolazione, ma c'erano pure stati rastrellamenti degli uomini: nel luglio 1944 furono presi tutti, dai 14 ai 60 anni, anche i medici e i preti. C'erano stati episodi atroci: una madre era andata a richiedere il suo ragazzo quattordicenne, i tedeschi avevano finto di accontentarla, avevano accompagnato entrambi verso casa, poi, mandata avanti la madre, le avevano ammazzato il ragazzo sulla strada. In alcuni casi avevano sparato a donne al lavoro nei campi. Un giovane studente, di nome Botero, che veniva in casa nostra a dare lezioni di matematica ad una mia cugina liceale, accusato di contatti coi partigiani, era stato torturato dai tedeschi, sballottato in motocarrozzetta da una frazione all'altra, infine fucilato davanti alla gente nella frazione di Lusana.
In quei giorni, a guerra appena finita, molti uomini deportati erano ancora in Germania, molti soldati erano dispersi in Russia, perduti nel gorgo della guerra nazista, non si sapeva se erano ancora vivi. Aldino, l'autista del paese, non sarebbe mai più tornato. Eppure nessuno, in piazza, dopo la festa per la pace, eccetto (forse, secondo una testimonianza recente, di cui allora non ebbi notizia) una sola voce isolata e nessun altro, si dichiarò per la morte, per approvare che si compisse ancora un triplice omicidio, a guerra finita (1).
Credo proprio che, in quel popolo in piazza, nessuno conoscesse il concetto di nonviolenza, né avesse letto Gandhi, che era già edito in italiano. Probabilmente nemmeno il parroco. Molti avranno pensato al perdono cristiano. Altri al fatto che la fine della guerra faceva finire l'orrenda necessità o spinta ad uccidere. Col passare del tempo, mi cresce nella memoria, tra i personaggi del triste episodio, quella gente di paese, che, in tutta semplicità, non alzando la mano, alza tutta se stessa al di sopra della vendetta, del sangue per sangue. Amo registrare questo fatto, ad onore del paese di mia madre e di tanti simili comportamenti dimenticati.
Il capo imprecò, definendo "pecoroni" i bagnonesi e ordinò il fuoco. Una donna della banda diede ai tre il colpo di grazia. Da casa nostra, a breve distanza, sentimmo le raffiche. In questa casa, qualche mese prima, i miei avevano aiutato un bersagliere repubblichino (milanese, di nome Vismara) a disertare e passare ai partigiani. Le donne in casa piangevano. Noi bambini, ammutoliti, mettevamo in cuore queste cose, senza ancora sapere che le avremmo ricordate per sempre.
Vidi tornare i tre uccisi, dopo pochi minuti, ammucchiati come sacchi su un carretto tirato da un asino, rossi di sangue, che colava ancora sulle lastre di pietra della strada centrale del paese. Li ho sempre davanti agli occhi. Ho impresso nel ricordo il contrasto impensabile tra quell'asino in cammino, vivo, la poca gente attorno, e quei tre poveri uccisi. Venivano portati nel cimitero di guerra tedesco, sotto i castagni, accanto a quello civile, a monte del paese. Ho una fotografia di quel cimitero, grigio come le divise tedesche, scattata nel 1953, prima che tutte le salme, una dopo l'altra, fossero riportate in Germania. Dopo oltre cinquantanni ho saputo, tramite amici tedeschi che si sono informati presso le apposite organizzazioni statali, che i tre uccisi di quel giorno sono ora sepolti, senza nome, nel cimitero militare tedesco di Costermano, presso il lago di Garda. Avrei voluto, se fosse stato possibile, comunicare alle loro famiglie i miei sentimenti di bambino per i loro morti. Un giorno vorrò visitare la loro tomba.
Mi pare di vederli ora, su quel carretto, i tre uccisi. In essi vedo tutta l'infinita moltitudine degli uccisi di tutte le guerre. Continuano a sanguinare su tutta la terra. Su tutte le strade del mondo c'è un asino paziente, più buono degli uomini, che accompagna al riposo nella terra i poveri uccisi, piangenti lacrime esauste di sangue. E cè anche, dappertutto, un popolo che non condanna a morte neppure i nemici, ma che non sa come fermare la catena della violenza.
Quei tre nemici uccisi, di cui non ho mai saputo il nome, sono i miei primi maestri della necessità della pace.
C'era un quarto militare tedesco, che assistette alla fucilazione dei tre dal palazzo del Municipio, dove era trattenuto, col terrore di venire poi ucciso anche lui. L'ho conosciuto esattamente cinquantanni dopo, nel marzo 1995, stringendo poi con lui una calda amicizia: è il signor Josef Schiffer, oggi novantenne, di cui ho scritto più volte (p. es., Più uomo che soldato, in Rocca, 15 aprile 1995). Non conosceva i tre fucilati, che erano di un altro reparto, dislocato altrove. Fu salvato dalle testimonianze spontanee di molti che sapevano in quanti modi, a suo rischio, aveva protetto la popolazione civile, già durante l'occupazione.
Nè allora, né da testimonianze successive, mi è mai risultato che i tre tedeschi uccisi fossero personalmente accusati di crimini. Furono uccisi in quanto nemici, per vendetta impersonale, oggettiva. Ma se anche fossero stati molto colpevoli, era ormai l'ora di smettere. Furono uccisi, quando la furia doveva finire. Anche se fossero stati Caino, che Dio protegge anche più di Abele (cfr Genesi 4,15), il loro sangue sparso a terra grida, grida, da quella piazza e da quella via di paese lastricata di antiche pietre, e da ogni angolo della terra.
La guerra è questo, per me. Ho conosciuto anche la paura del bombardamento, ma per me la guerra è soprattutto quella fucilazione, l'animo che la produsse. Nessuna causa al mondo può giustificare queste cose.
So bene che la guerra partigiana aveva grandi ragioni, e se racconto questo episodio non è certo per disconoscerle né per fare uguali tutte le parti e tutte le violenze, come oggi qualcuno fa insensatamente. Sappiamo che allora non cera una cultura della nonviolenza, anche se molta parte della Resistenza fu condotta nello spirito e coi mezzi della nonviolenza. So bene che, se mai ci fu una guerra giustificabile, questa è stata la resistenza al nazifascismo. So anche, però, che la causa più giusta, difesa con la violenza omicida, ne viene facilmente snaturata e rischia di diventare irriconoscibile e irraggiungibile. Proprio una guerra "giusta" dimostra l'ingiustificabilità della guerra: l'arma trascina l'uomo alla brutalità gratuita, rende ingiusto e più difficile il cammino verso lo scopo giusto. Giuliano Pontara ha esaminato nel dettaglio il processo corruttore degli uomini e anche dei loro scopi giusti che la violenza opera quasi fatalmente (cfr Se il fine giustifichi i mezzi, Ed. Il Mulino, Bologna 1974). I sapienti ce lo dicono. Pascal: "È necessario uccidere per impedire che ci siano malvagi? Ma ciò è farne due invece di uno" (Pensieri, ediz. Brunschvigc, n. 911). Kant: "La guerra è un male perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (Per la pace perpetua, 1795). Primo Mazzolari scriveva già nel 1952: "Se facessimo la resistenza come labbiamo fatta ieri con l'animo di oggi, saremmo in peccato" (Tu non uccidere, ed. La Locusta, Vicenza, varie edizioni dal 1955, p.86 dell'edizione 1965, p. 81 delledizione San Paolo 2002). Giovanni XXIII: "E' fuor di ragione pensare che la guerra possa essere strumento di giustizia" (Pacem in terris, 1963).
Quella gente in piazza entrava in questi pensieri, anche senza saperli dire. Era la liberazione. C'era chi intendeva che la liberazione dai tedeschi consistesse nell'ucciderli, nel vendicarsi, anche ora su quei tre, ridotti inoffensivi. Ma c'era chi intuiva che ci si poteva liberare dall'uccidere. Lo intuiva debolmente, senza la consapevolezza e la preparazione sufficienti a sostenere questa ragione e renderla efficace nei fatti. In Italia in quel momento Aldo Capitini, da solo, diceva questa idea di liberazione.
Torno a guardare i protagonisti di quel fatto emblematico. I tre uccisi; la gente del paese, che fu per i fucilati l'ultima scena di questo mondo, nell'atto umano di non condannarli, di guardarli con pietà sia pure impotente, atto che forse richiamò nei condannati tutta l'umanità dimenticata e fu forse redenzione dai loro eventuali delitti; gli uomini e la donna che spararono, armati per una causa giusta e resi ingiusti dal contagio del potere mortale delle armi, che non sentirono né leggi di limite alla guerra né pietà del nemico disarmato, e forse sono invecchiati pensando come me a quel giorno di aprile, o forse l'hanno dimenticato tra le altre durezze della guerra. Ecco i protagonisti di quel fatto emblematico, simile a mille e mille altri, ma unico per chi vi muore e per chi ne è toccato. Vorrei che tutte queste persone passassero un poco nella testimonianza di questa pagina, come vivono nella mia coscienza, a ripetere non un messaggio morale o ideologico, ma la parola che, prima, sopra e contro tutte le teorizzazioni, da ogni volto umano, dice con la semplice forza della presenza: tu non uccidere, non uccidere più, non uccidere mai. Tu, anche tu solo, non uccidere. Chi accoglie questa parola e la vive, entra in una libertà, conduce il mondo verso la libertà dalla morte. La vita senza morte comincia dalla vita senza uccidere.
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