Paolo
Belmesseri
poeta (XVI secolo)
Nel secolo di Ariosto, Tiziano Bonarroti, Paolo Belmesseri
trovò un posto di rilievo nella storia della poesia
del suo tempo.
Non si conosce con precisione la data della
sua nascita che tuttavia si può collocare attorno
al 1480 ed è certo che nacque a Pontremoli come si
rileva dalla intestazione dei suoi carmi: "Paulus Belmesserus
Pontremolanus".
Fu medico, teologo, ma soprattutto poeta.
Nel 1512 lo troviamo lettore, presso l'Ateneo bolognese,
di logica, medicina e filosofia ed è questo il periodo
in cui strinse amicizia con Ludovico Ariosto e Cornelio
Lambertini.
Dai suoi versi sappiamo che insegnò dieci
anni a Bologna, in particolare l'arte medica. Nel 1527 accorse
a Venezia, contagiata dalla pestilenza, per prestare la
sua opera di scienziato per debellare il morbo. Questo lavoro
non ebbe tuttavia i riconoscimenti dovuti e di ciò
si lamentò ironicamente nei suoi carmi.
Anche Bologna
non fu generosa verso di lui poiché sembra che gli
rifiutasse i compensi dovuti in tanti anni di insegnamento.
A nulla valsero le sue richieste rivolte a Francesco Guicciardini
governatore della città.
In seguito fu medico di
Papa Clemente VII e con lui si recò a Marsiglia per
le nozze di Enrico, figlio primogenito di re Francesco I
di Francia e Caterina de' Medici. Nell'occasione pubblicò
un epitalamio eccessivamente adulatorio, che tuttavia gli
fruttò la corona dell'alloro, conferitagli solennemente
da Francesco I e da Clemente VII, in una cerimonia che si
svolse durante i festeggiamenti nuziali. Seguì poi
il re di Francia a Parigi ove tenne lezioni di filosofia
per una anno, leggendo soprattutto Aristotele, e pubblicò
il libro dei suoi Carmi, l'"Opera poetica".
Ritornò a Roma l'anno successivo,
chiamato da Papa Paolo III, successore di Clemente VII.
In quel tempo pubblicò una parafrasi in 36 elegie
latine dei primi due libri del "De animalibus" di Aristotele.
Presso la corte pontificia insegnò teologia fino
al 1544 e da quel momento non si hanno di lui più
notizie certe. Le storie letterarie ci parlano poco del
Belmesseri e forse occorre dire che da vivo ebbe maggior
considerazione. Ma senza dubbio occorrerà riscoprire
la sua produzione lirica per una analisi critica che gli
renda giustizia dell'oblio in cui cadde dopo la morte.
Scrisse
in latino guardando però più al Petrarca che
a Virgilio, anche se il suo verso mancò di originalità,
condizionato forse dagli studi di medicina e teologia che
lo indussero ad affrontare in poesia temi, a volte, troppo
astratti. La perfetta disinvoltura nel produrre versi latini
la raggiunse con "Heptas", un poemetto sul numero sette
dedicato a Clemente VII.
Mentre Machiavelli stendeva le
"Istorie fiorentine", Belmesseri cantava le sorti di un'Italia
dimessa e sfortunata con assai diversi accenti.
Amò
Pontremoli di cui parla nei suoi versi dicendo: "Salve mia
patria, / et sic sint tua moenia semper/ Et cives omnes,
flumina tanta duo, / Et macrae et viridis qui iuncti moenia
lambunt". |